Una frase razzista o sessista che genera un danno d’immagine all’azienda, un insulto pesante a un collega, la rivelazione di fatti che dovrebbero restare riservati: sono tutti esempi di come, con poche righe mal scritte sui social media (che si tratti di Twitter, LinkedIn, Facebook o affini), un dipendente può mettere a rischio il proprio posto di lavoro.

Rischio che non sempre si concretizza, perché la giurisprudenza sul tema ha un approccio ancora molto variabile: non mancano (e anzi sono la maggioranza) le decisioni che riconoscono la possibilità di licenziare per giusta causa chi pubblica frasi offensive verso l’azienda o i colleghi sui social, ma questa linea rigorosa è bilanciata da altre pronunce che fanno invece prevalere il diritto di critica, anche aspro, rispetto all’eventuale superamento dei limiti del decoro.

Un’altra distinzione emersa nella giurisprudenza più recente (si veda la sentenza del Tribunale di Firenze del 16 ottobre 2019, commentata sul Sole 24 Ore del 19 novembre) riguarda la platea che riceve eventuali messaggi offensivi: secondo questo orientamento, la rilevanza disciplinare dei messaggi cambia quando sono pubblicati su profili social aperti a tutti, o sono pubblicati su account o all’interno di chat telefoniche il cui accesso è filtrato e riservato.

Nel primo caso, l’eventuale contenuto offensivo del messaggio rileva sul piano disciplinare e, quindi, può essere contestato al lavoratore e utilizzato come motivo di licenziamento (qualora sussistano, ovviamente, gli elementi di gravità richiesti dalla legge). Nel secondo caso, la giurisprudenza equipara i messaggi inviati alla chat chiusa o pubblicati sul profilo ad accesso limitato alle forme di corrispondenza privata che, come tali, sono oggetto di tutela costituzionale e non possono essere usate per licenziare o sanzionare un dipendente.

Il tema delle comunicazioni sui social media interessa anche le relazioni industriali, con la diffusione delle “bacheche” digitali. Rispetto ai contenuti pubblicati su questi strumenti, i giudici tendono a distinguere tra l’esercizio del diritto di critica – assolutamente lecito e, anzi, oggetto di una tutela rinforzata per consentire l’espletamento del mandato sindacale – e la diffusione di informazioni e notizie false o di contenuto diffamatorio: in questa ipotesi, non basta la carica sindacale a salvare il lavoratore dal licenziamento (si veda la sentenza della Cassazione10897/2018).
In queste situazioni la giurisprudenza tende a bilanciare il diritto alla privacy, sancito dagli articoli 4 e 8 dello Statuto dei lavoratori e dalle regole del Gdpr, con la necessità di consentire i controlli dei datori di lavoro sui profili social dei dipendenti, in presenza di determinate condizioni (una grossa apertura in questa direzione è venuta dalla sentenza della Cassazione 10955 del 27 maggio 2015 , che ha ritenuto legittimo il controllo svolto sui social media dal datore verso un dipendente tramite un falso profilo).

La questione diventa più complessa quando i messaggi pubblicati sui social media, pur essendo particolarmente sconvenienti (testi razzisti, incitamento alla violenza o alla droga, e così via), non c’entrano nulla con il lavoro. La possibilità per il datore di lavoro di contestare sul piano disciplinare questi comportamenti non è scontata, e mancano ancora orientamenti consolidati sul tema.

È probabile, tuttavia, che la giurisprudenza tenderà ad applicare lo stesso ragionamento già applicato alle condotte che non rilevano direttamente sul rapporto di lavoro ma che possono minare il rapporto fiduciario con il lavoratore. Usando questo metro, il datore potrà contestare e sanzionare la pubblicazione di un post “sconveniente” solo se potrà dimostrare che questa condotta ha leso il rapporto fiduciario e ha provocato un danno all’organizzazione aziendale.

Fonte: Il Sole 24 ore

 

Il commento di Daniele Spano, amministratore di Kruzer S.r.l.

Il tema è scottante, come tutti i temi che riguardano il rapporto tra dipendente e datore di lavoro. Qualsiasi azione che abbia come finalità quella di disciplinare il rapporto di lavoro, specialmente nel nostro paese, non sempre genera conseguenze scontate. Questo per due fondamentali motivi:

  1. Le normative, le linee guida e, in generale, l’impianto che regola i rapporti di lavoro, i diritti degli individui ed i legittimi interessi è molto complesso e lascia spazio ad interpretazioni e applicazioni diverse da parte dei giudici;
  2. Le tecnologie elettroniche ed informatiche viaggiano ad una velocità molto più alta rispetto a quella degli adeguamenti normativi.

Ci ricordiamo, a proposito di “controllo del dipendente”, i diversi orientamenti a seguito del Job Act, dove il secondo comma dell’art. 4 prevede che le garanzie del dipendente, rispetto al divieto di essere controllato dal datore, vengano a cadere nel momento in cui gli strumenti, che potrebbero consentire un controllo, siano utilizzati nello svolgimento dell’attività lavorativa. Ci si riferisce a telecamere, geolocalizzatori, smartphone, etc.

Il Ministero del Lavoro, tuttavia, precisa che è necessario avvisare i dipendenti dell’utilizzo di tali strumenti e del tipo di controllo che è possibile effettuare.

A seguito dell’applicazione del GDPR è bene ricordare che alcuni di questi strumenti, come le telecamere o i controlli di accesso con impronta digitale, necessitano di una valutazione di impatto privacy e resta valido, sulla base della legge 300, un accordo sindacale o un’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro preventiva.

Ma torniamo al caso dell’articolo del Sole 24 Ore.

Possiamo riscontrare, nella sentenza emessa dal Tribunale di Firenze, una coerenza con il principio del GDPR secondo il quale “il GDPR non si applica a dati resi manifestamente pubblici”. Nel caso in questione, il dato o meglio la posizione del soggetto in questione, si dimostra in conflitto, aggravata dall’insulto e/o dalla diffamazione verso il proprio datore. L’applicazione dell’art.593 del Codice Penale risulta assolutamente comprensibile.

Daniele Umberto Spano

 

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